Cominciò così. Con Regina che cantava. La sua voce usciva dalla chiesa sconsacrata, in prossimità del Rio dell'Arsenale, dove gli attori avevano provato lo spettacolo fino alle prime luci del giorno. Era un canto di saluto, con una nostalgia di vita persa. Pareva sorgere da un magico campiello l'altoparlante lo amplificava, senza nulla togliere alla suggestione e al segreto diffondendosi in quel'angolo di Venezia da cui si allontanava una notte temporalesca, lasciando posto allo schietto sereno di una giornata di domenica. La voce di Regina spaziava in quell'inatteso chiarore di cristallo. Marco Donati ebbe la sensazione di coglierla, con un presentimento, prima ancora di udirla: sembrava rivolgersi a lui soltanto, per attirarlo e indurlo a reagire con una felice concentrazione dei sensi e della memoria. Egli si abbandonò a quel richiamo che intese come un misterioso messaggio, e respirò a fondo l'odore dell'acqua che scorre intorno alle case, un odore unico al mondo, che stimola la mente più di qualsiasi profumo.
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Sono un nostalgico, per me è difficile stare fuori casa, mi sono sempre sentito come un piccolo Ulisse.
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Sono orgoglioso di essere figlio di gente povera. Figlio della Venezia popolare. Andavo a lavorare con mio padre, venditore ambulante di gondoete, gondole di plastica nera. E lì, sui marciapiedi di Cannaregio, ho imparato tutto. Il lavoro, il sacrificio. Vivevamo in nove in novanta metri quadri, con i miei due fratelli, mia zia vedova e i suoi tre figli. E comunque a casa mia non c'era un libro. Cominciai a studiare il greco di notte, di nascosto. Così ho dato l'esame per passare al Foscarini. Il figlio dell'ambulante, il piccolino, al liceo dei siori. Alla maturità fui il primo della classe.
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